Chi è costui, vi chiederete voi. Ecco,
mi presento: sono un giullare e quanti mi conoscono, credo, siano pronti a
giurare che sono pazzo. Folle, nel vano tentativo di sfidare la magia col solo
ausilio dell’intelletto. Sognatore, perché credo nella grandezza dell’uomo.
Maledetto, perché non affido le mie speranze a un raggio di Sole. Dannato,
perché ho cercato di cancellare i colori dell’arcobaleno, lasciando solo il
rosso del sangue. Il mio sangue sulle mie mani. Eppure, vi fu un tempo lontano
in cui fui principe, figlio di grandi re, in seguito impugnai la spada come
bandito, ma le mie armi preferite furon e saranno le parole, messaggere della
mia più intima essenza che è sempre stata un’anima di giullare.
Da questa collina verdeggiante vedo le
foglie tremare al sottile respiro del vento e mi torna in mente soave il suono
dei flauti, dei liuti, della mia amata arpa, spensierato sottofondo delle corti
principesche, eppure ogni volta che vorrei d’abbandonarmi ai ricordi, irrompe
il fragore scellerato dei campi di battaglia,
lo sguardo spietato dei condottieri con i pugni insanguinati stretti sulle spade,
ed è inutile negarlo, io ero tra loro.
A quest’ora i
fianchi della collina si tingono d’oro, e i tanti fiori che li ricoprono
assumono tinte calde, madide di vita, sento il loro profumo abbracciarmi, quasi
a volere diventare la mia linfa, ma non è che un’illusione… . Così, come se
volessi rispondere ad un muto richiamo, ogni sera
vengo a sedermi sotto questa quercia, rivolto a nord, col cuore proteso verso i
confini settentrionali del nostro mondo, verso funesto Niflar, il Paese delle
Nebbie, che divide la Terra degli Uomini, dei vivi, il Midgard, dal mondo dei
morti, l’Hell. Guardo in lontananza sperando di potere vedere la bruma scivolare fina tra i boschi, venirmi incontro, cercando me,
figlio del Paese delle Nebbie. Ballavo, cantavo, scherzavo, ma il mio cuore era
dominato dalla nebbia, non c’era piacere umano che potesse dissolverla, allontanarla
da me. Già perché all’epoca non volevo ammettere nemmeno questo: la mia natura elfica
e non umana.
Alcune saghe evanescenti c’identificano con gli elfi neri, ma nelle notti
d’inverno, quando la bruma arriva a sfiorare le cime scure degli abeti, il
vento canta il nostro antico nome: eravamo i Nibelunghi, adesso siamo pochi
errabondi senza terra e un passato che non è altro che una confusa leggenda
nella stessa legenda.
Ed io, solitario principe di una stirpe maledetta, artefice della propria
tragedia, detentrice di allettanti tesori che tante rovine generarono, cosa
spero di potere intravedere nascosto dietro la nebbia? Un amore disperato, i
miei crimini, la mia rabbia?
Forse vi sto raccontando questa storia, perché penso che sia
giunto il momento di tornare indietro nella parte più buia del mio passato e
confrontarmi con ciò che più temo: me stesso; riaprendo cicatrici che il tempo
non può sigillare e il cuore non ha la forza di sfuggire. Sembrerebbe non avere
senso, eppure solo così, forse, riuscirò a ritrovare la mia anima di giullare,
persa nelle nebbie dell’odio, essa stessa tenue ombra, nebbia tra le nebbie, e potrò
ascoltare ancora una volta quella poesia che qualcuno aveva scritto sulle sue
pareti di nebbia.
Questa, però, non è soltanto la mia storia, io non sono
che uno dei tanti che gli avvenimenti travolgono senza lasciarne traccia, e che
nei canti dei bardi vengono ricordati in una sola drammatica strofa lunga un
arpeggio, quanto basta per lasciare i bambini a bocca aperta, e inumidire gli
occhi delle dame. Tempo addietro un vecchio mago e caro amico di nome Gilduin,
ripensando a quanto accaduto, paragonò la nostra storia ad un’antica leggenda,
che narra di due principi che per via delle loro eccezionali gesta ricevettero
dagli Dei l’immenso dono di potere esprimere un desiderio, entrambi chiesero
l’eterna giovinezza e quindi l’immortalità.
Gli Dei, però, nella loro somma saggezza, reputando tale
dono troppo grande per dei semplici mortali, posero una condizione e pretesero
in cambio l’oggetto più prezioso che i principi avessero. Al più anziano
chiesero la splendida spada Gramr, che gli aveva permesso di salvare le persone
più care. Al più giovane, il fiore regalatogli dall’amata al momento
dell’addio, che egli stringeva ancora in mano.
Nessuno dei due principi consegnò agli Dei l’oggetto
richiesto, probabilmente in quell’istante entrambi compresero la vanità del
proprio desiderio, o forse il prezzo preteso dagli Dei era troppo alto, persino
per l’immortalità. Fu così che lasciarono i sacri antri del Walhalla per fare
ritorno alle lontane dimore.
Dopo di loro, però, come nella nostra storia, si presentò
agli Dei un giovane drago, di nome Penumbra, e offrì agli Dei la propria vita
in cambio di un fiore… gli Dei sorrisero.
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