Cosa poteva avere mutato l’acqua sorgiva in
sangue? Percosse con forza il suolo col lungo bastone magico, pronunciando un
contro incantesimo, ma non cambiò niente, se avesse usato un comune manico di
scopa, avrebbe sortito lo stesso effetto; aveva la sgradevole sensazione che la
sua magia non avesse alcun potere di fronte a quello scempio e fosse divenuta
semplicemente inutile. Con che cosa aveva a che fare? Quella domanda lo
inquietava più dello stesso sangue.
Brandendo il bastone, sua unica arma contro
quell’oscuro maleficio, si chinò cautamente sulla sorgente nelle cui acque così
spesso aveva spiato gli avvenimenti del mondo, non riuscì nemmeno a vedere la
propria immagine riflessa. Difficile specchiarsi nel sangue se si ha il cuore
puro. L’unica cosa che poté carpire a quella linfa venefica fu un urlo distorto
dalla lontananza, ripetuto più volte.
«Uhtfolga, Uhtfloga» era la lontana eco della
voce di un demone che gridava nell’oscurità.
Tradotto nella nostra lingua significa qualcosa come “colui che vola
nella penombra” e proseguiva biascicando un oscuro indovinello.
«Volavit volucer sine plumis, sedit
in arbore sine foliis… conscendit illam sine pedibus, assavit illum sine igne…».
Attese trattenendo il respiro. La voce
riprese più confusa, lontana.
«Nox
iam appetit… redit…» più chiaramente riuscì a distinguere
«…Occidere…
». Gilduin tremò mentre lo sentiva dire « Nocte
intermissa est… ».
L’angoscia si fece largo nel cuore di Gilduin,
in che modo le forze demoniache potevano essere riuscite a contaminare a tal
punto la sorgente incantata? Di quale straordinaria forza disponevano per
riuscirci? Chi erano? Pensò d’andare a consultare i suoi libri, uscì sgomento e
rimase impietrito da ciò che si trovò dinanzi: gli alberi avevano perso tutte le
foglie, non vi era più un filo d’erba su tutta la collina. Era come se la morte
contenuta in quella voce malefica, avesse impregnato le radici delle Querce
Sacre, qualcosa stava nascostamente avvelenando il nostro mondo. Le querce lo
avevano recepito.
Il vento adesso sollevava gli steli secchi
che erano stati erba e lambiva i sassi. A memoria d’uomo non era successo
niente di simile. La natura sembrava moribonda, quello era un infausto presagio
di morte, se non proprio la morte stessa. Per la prima volta in vita sua
Gilduin si fece prendere dal panico, si agirò inquieto tra i rovi secchi,
pregando, urlando formule magiche e percotendo il suolo col bastone magico, usò
tutti gli artifici a lui noti per salvare questo luogo sacro, ma non servì a
nulla. La collina si era trasformata in un’altura scarna, sembrava che la vita
non l’avesse mai toccata.
Alcune ore dopo, quando Gilduin era ormai in
preda alla disperazione e prossimo alla rassegnazione, il fenomeno della voce
si ripeté, la seconda volta, però non fu un urlo, ma un impercettibile sussurro
che canterellava l’antico indovinello.
«Volavit volucer sine plumis, sedit in
arbore sine foliis…. Conscendit illam sine pedibus, assavit
illum sine igne…» e poi ripeté
tutto di nuovo.
Gilduin si precipitò verso la fonte urlando «Chi
sei?».
L’indovinello si ripeté e poi come un timido
balbettio aggiunse: «Penumbra». Al vecchio vate sembrò quasi di cogliere
una lontana risatina, poi tutto svanì nel silenzio.
La
collina si ricoprì nuovamente d’erba e fiori, gli alberi germogliarono
drizzando le maestose chiome al cielo e gli uccelli ripresero a cinguettare e
svolazzare giocosi come se niente fosse accaduto. La natura risplendeva superba
e spavalda mostrando all’uomo ciò che non era in grado di capire.
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